Lo Stato fondamentalmente deve decidere, quando si parla di droga, su due temi. Uno è la libertà delle persone, che include anche la legalità di un comportamento, come l’uso di una sostanza ricreativa. Dall’altra, conoscerne la pericolosità eventuale. Teoricamente l’allarme può riguardare qualsiasi cosa. Un tempo si demonizzava il caffè, oggi farebbe ridere. Ma non è solo questione di diffidenza, bensì anche di dosi, tipi di preparazione, e genetica delle popolazioni.
Il mercato della cannabis negli anni è cambiato, verso un tipo di preparazione più carica di thc, il principio attivo responsabile degli effetti ricercati. Il tasso di thc è utilizzato come riferimento per definire la cannabis “legale” da quella “illegale”. Tale concetto non va confuso con quello di cannabis “terapeutica”, che può essere illegale salvo scopo terapeutico, cioè su prescrizione soggetta a controllo e restrizioni (per esempio ammessa solo per determinati scopi medici).
Sia negli USA che in Italia, i sequestri di cannabis indicano la stessa tendenza, verso una cannabis sempre più carica. Al di là della legalità (comunque trattasi sempre di cannabis illegale), cambiano gli effetti attesi. Gli effetti più gravi, come la psicosi da cannabis, sono anch’essi legati al thc.
Non vogliono dire molto le associazioni tra uso di cannabis e grado di felicità e adattamento sociale, o con le diagnosi di malattia mentale. Si potrebbe sostenere sia che sono la conseguenza della cannabis, sia che chi sta peggio ricorre anche alla cannabis, magari per consolazione o per attenuare alcuni sintomi.
Si conoscono alcuni fattori di vulnerabilità ai disturbi mentali associati a cannabis: per esempio la presenza di una variante del gene per l’enzima COMT si associa ad uno specifico rischio di psicosi schizofreniforme in età giovane (entro i 26 anni). Che usino cannabis per placare i sintomi, senza troppo successo, perché sono geneticamente sensibili a questo effetto della cannabis? O il contrario, sono i più sfortunati tra gli utilizzatori, perché mentre la maggioranza degli amici non sviluppa psicosi, loro sì. L’impressione che si avrebbe è la seconda, considerando che quando queste persone, uscite dall’ospedale e curate, tornano a usare cannabis, anche poca, tendono ad avere ricadute.
Effettivamente questa casistica, di psicosi associate all’uso di cannabis, se non è in aumento è quantomeno di rilievo. La percezione di quanto possa essere rischiosa la cannabis in chi ha avuto una psicosi è inoltre molto bassa: gli stessi pazienti non mostrano particolare remora nel tornare a usarla e si mostrano scettici sul legame con la psicosi.
Chi invece si spaventa degli effetti della cannabis, per definizione, è chi sviluppa un disturbo d’ansia mentre la usa. In questo non parrebbe trattarsi di disturbi indotti, ma semplicemente del fatto che sono disturbi frequenti, tipicamente familiari (come il disturbo di panico) che iniziano in occasione di un consumo di cannabis. Le persone in questo caso sono particolarmente spaventate dall’unione dello stato di allarme e dalle sensazioni percettive o di distacco dalla realtà che la cannabis ha in quel momento determinato. Frequente è il timore di aver subito danni irreparabili, anche per un singolo consumo, oppure di avere qualcosa che ormai non torna più a posto nel cervello, nella vista, nel controllo dei movimenti etc. Per fortuna questo tipo di disturbi non ha grossi problemi di trattamento, che salvo qualche accorgimento iniziale somiglia al trattamento delle forme spontanee.
La dipendenza da marijuana: esiste ed è mai esistita? Diciamo che, parlando da osservatore del fenomeno a livello ambulatoriale, il quadro della dipendenza da cannabis non ritengo di averlo osservato. Gli utilizzatori abituali sono tipicamente giovani accompagnati dai genitori, hanno una sindrome da intossicazione da cannabis, che consiste in un tipo di umore, di tolleranza alla frustrazione, di visione del mondo passiva e ipercritica, associata ad una difficoltà di applicarsi a scopi concreti o pianificare cambiamenti nella propria vita. La cosiddetta sindrome amotivazionale, che però non equivale a dire “dipendenza da cannabis”. Queste persone raramente si lamentano dell’uso, mentre possono chiedere un aiuto a smettere e a sopportare il cambiamento di consapevolezza conseguente alla cessazione della cannabis. La “bolla” emotiva e cognitiva che l’uso di cannabis determina infatti evita di sentirsi il fiato sul collo della vita e degli altri, ma proprio per questo induce il mantenimento di condizioni insoddisfacenti di vita. Il fatto però è che molti utilizzatori non ritengono di dover dar la colpa alla cannabis di questo effetto, poiché il loro stato mentale li porta a percepire il problema come esterno, “colpa del mondo”, “della sorte”, o di chi non li aiuta abbastanza.
I dati americani dicono che la richiesta di trattamento per la cannabis aumenta, e suggeriscono che la dipendenza da cannabis riguardi il 9% degli utilizzatori, in particolare quelli che iniziano in adolescenza, e che usano quotidianamente. Questo collocherebbe la cannabis (di qualsiasi tipo, riferita ai nostri anni) una sostanza meno pericolosa dell’alcol in termini di dipendenza, in confronto con un 23% di rischio dell’eroina (di dipendenza in chi la prova) e del 32% per il tabacco.
Come vedete, ci sono dati che un antiproibizionista potrebbe prendere a suo favore (la dipendenza è minore che con l’alcol, che è legale) ma anche l’opposto (la qualità della cannabis è tale da rendere maggiore il rischio di gravi malattie psichiatriche, e induce comunque una sindrome diasadattativa, nota da sempre, la “amotivazionale”).
Fonte: Tgcom 24